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Vladimir Majakovskij e Maria Denisova, un Amore disperato

La storia del poema "La nuvola in calzoni" / "Облако в штанах" è collegata all'amore tormentato e non corrisposto del poeta Russo Vladimir Majakovskij (1893-1930) per la scultrice monumentale Russa, Maria Alexandrovna Denisova (1894-1944).
I due si incontrarono nel 1914 ad Odessa, durante il viaggio dei futuristi del 1913.
"La nuvola" è il capolavoro della stagione "prerivoluzionaria" di Majakovskij, uno dei testi più significativi del futurismo russo e della letteratura russa del Novecento.


Composto tra il 1914-1915 da un Majakovskij poco più che ventenne, il poemetto trabocca di una forza lirica tesa, appassionata, che vuole essere dissacrante, antiborghese, antifilistea, ed è soprattutto intensamente libertaria.
Majakovskij vuol portare dentro l'arte della parola la carica dirompente di una visione nuova o rinnovata della realtà, dei sentimenti, dell'idea stessa della poesia e della scrittura.

Vladimir Mayakovsky, 1924

E lo fa ricorrendo ad un'incalzante sequela di immagini provocatorie, ad un'orchestrazione sonora aspra e dissonante, ad un'arditezza compositiva frutto di una maturità sbalorditivamente precoce.
Il poeta della "Nuvola" cerca disperatamente l'amore di Maria, l'amore tra gli uomini della Terra, l'amore universale tra l'uomo ed il cosmo.
Sogna di vedere cancellata la sofferenza dei reietti e degli oppressi; esalta la ribellione, il tumulto popolare.
Ma davanti a sé non trova che il rifiuto, la desolazione, il silenzio dell'universo (e di Dio).
Cosi, nella colata lavica del poemetto confluiscono via via la passione amorosa, lo spirito di rivolta contro una società ingiusta e violenta, la polemica letteraria, l'ossessiva "lotta con Dio", il doloroso vagheggiamento di una rivoluzione che il poeta sa utopica, perché incapace di riscattare l'uomo".

Maria Alexandrovna Denisova, 1913

La nuvola in calzoni - Parte IV

Maria! Maria! Maria!
Lasciami entrare, Maria!
Non posso restare in istrada!
Non vuoi?
Tu aspetti
che con le guance infossate,
assaggiato da tutti,
insipido,
io venga
a biascicar senza denti:
Sono oggi
mirabilmente onesto.

Maria,
vedi:
ho già cominciato a incurvarmi.

Nelle vie
gli uomini bucheranno il grasso nei loro gozzi a quattro piani
sporgeranno gli occhietti
lisi da quarant'anni di logorio,
per ammiccare l'un l'altro ghignando
che fra i miei denti
- di nuovo! -
è il panino raffermo della carezza di ieri.

Zuppo ladruncolo stretto dalle pozzanghere,
la pioggia, spruzzando singhiozzi sui marciapiedi,
lecca il cadavere delle vie tartassato dai ciottoli,
e sulle ciglia canute
- sì! -
sulle ciglia dei ghiacciuoli
gocciano lacrime dagli occhi
- sì! -
dagli occhi abbassati delle grondaie.

Succhiò tutti i pedoni il muso della pioggia,
mentre nelle vetture luccicava una fila di pingui atleti:
scoppiavano certuni,
rimpinzati a crepapelle,
e attraverso gli spacchi stillava la sugna,
come un torbido fiume dalle vetture scolava,
insieme con un pane maciullato,
la masticatura di vecchie cotolette.

Maria!
Come ficcare una dolce parola nel loro orecchio coperto di grasso?
L'uccello
va mendicando con una canzone,
canta,
affamato e squillante,
ma io sono un uomo, Maria,
semplice,
scatarrato dalla notte tisica nella sudicia mano della Presnja.

Maria, vuoi un uomo simile?
Lasciami entrare, Maria!
Con lo spasmo delle dita stringerò la gola metallica del campanello!

Maria!
Diventano feroci i pascoli delle strade.
Sul collo come una scalfittura le dita della calca.

Apri!

Fanno male!

Vedi? Sono confitti nei miei occhi
gli spilli dei cappelli femminili!

Mi ha lasciato entrare.

Bambina!
Non ti spaurire
se sul mio collo taurino
seggono come un'umida montagna donne dal ventre sudato:
gli è che attraverso la vita io trascino
milioni di enormi casti amori
e milioni di milioni di minuscoli sudici amorucci.

Non ti spaurire
se ancora una volta
nell'intemperie del tradimento
mi stringerò a migliaia di vezzose faccine.

«Adoratrici di Majakovskij!»:
ma questa è davvero una dinastia
di regine salite al cuore d'un pazzo.

Maria, più vicino!

Con denudata impudenza
oppure con un pavido tremore
concedimi la florida vaghezza delle tue labbra:
io e il mio cuore non siamo vissuti neppure una volta sino a maggio,
e nella mia vita passata
c'è solo il centesimo aprile.


Maria!
Il poeta canta sonetti a Tiana
mentre io,
tutto di carne,
uomo tutto,
chiedo semplicemente il tuo corpo,
come i cristiani chiedono:
«Dacci oggi
il nostro pane quotidiano».

Maria, concediti!

Maria!
Io temo di scordare il nome tuo
come un poeta teme di scordare
qualche
parola nata fra i tormenti delle notti,
uguale per grandezza a Dio.
Il tuo corpo
io saprò custodire ed amare
come un soldato,
stroncato dalla guerra,
inutile,
ormai di nessuno,
custodisce la sua unica gamba.

Maria,
non vuoi?
Non vuoi?

Ah!

Ed allora di nuovo,
afflitto e cupo,
io prenderò il mio cuore
e, irrorandolo di lacrime,
lo porterò
come un cane
porta
nella sua cuccia
la zampa stritolata dal treno.

Con il sangue del cuore allieterò la strada,
fiori di sangue si incolleranno alla polvere della mia giubba.
Mille volte danzerà come Erodiade
il sole attorno alla terra
cranio del Battista.

E quando avrà finito di danzare
il mio numero di anni,
d'un milione di gocce di sangue si coprirà la traccia
che mena alla casa di mio padre.

Uscirò fuori
sudicio (per le notti trascorse nei fossati),
mi metterò al suo fianco,
mi chinerò
per dirgli in un orecchio:
Ascoltate, signor Dio!

Non vi dà noia
inzuppare ogni giorno
nella composta di nuvole gli occhi ingrassati?


Su via, vediamo insieme
di fare un carosello
sull'albero della conoscenza del Bene e del Male!
Onnipresente, tu sarai in ogni armadio,
e a tavola porremo vini tali
che anche all'accigliato Pietro Apostolo
verrà voglia di ballare un ki-ka-pù.
E in paradiso di nuovo ospiteremo le Evucce:
basta che tu dia un ordine
e questa notte stessa
ti porterò in gran frotta
da tutti i viali le ragazze più belle.
Vuoi?
Non vuoi?
Scrolli la testa capelluta?
Aggrondi le ciglia canute?
Tu pensi
che quello con le ali
che ti sta dietro
sappia cosa sia l'amore?

Anch'io sono un angelo; io lo ero,
guardavo negli occhi come un agnello di zucchero,
ma non voglio più offrire alle giumente
vasi plasmati nella farina di Sèvres.

Onnipossente che hai inventato un paio di braccia
e hai fatto si che ciascuno
avesse una sua testa,
perché non hai inventato una maniera
di baciare, baciare e ribaciare
senza tormenti?!
Pensavo che tu fossi un gran Dio onnipotente,
e invece sei un insipiente, un minuscolo deuccio.
Vedi, io mi curvo,
di dietro il gambale
traggo il trincetto.

Alati furfanti!
Rannicchiatevi in paradiso!
Rabbuffate le vostre piumette in uno sbigottito brivido!
Te, impregnato d'incenso, io squarcerò
di qui sino all'Alaska!

Lasciatemi!

Non mi fermerete.
Sia che mentisca
o mi trovi nel giusto,
non potrei essere più calmo.

Guardate:
hanno di nuovo decapitato le stelle,
insanguinando il cielo come un mattatoio!
Ehi, voi!
Cielo!
Toglietevi il cappello!
Me ne vado!

Sordo.

L'universo dorme,
poggiando sulla zampa
l'enorme orecchio con zecche di stelle.

Maria Alexandrovna Denisova (1894-1944)