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Rainer Maria Rilke: "Un’opera d’arte è buona se nasce da necessità!"

Lettera ad un Giovane Poeta / Letter to a Young Poet, 1903

"Le Lettere ad un giovane poeta" - dieci lettere scritte da Rainer Maria Rilke (Scrittore, poeta e drammaturgo austriaco di origine boema, 1875-1926) al giovane Franz Xaver Kappus (Scrittore e giornalista Austriaco, 1883-1966), sono un manifesto della creazione artistica.

Studente ventenne della Accademia militare di Wiener Neustadt, Franz Kappus si dilettava a scrivere poesie, e sognava di condurre una vita diversa - non dedita ai servizi militari.
Scoprendo che la stessa Accademia, anni prima, era stata frequentata dal noto poeta Rilke, inizia a leggerlo nelle pause tra le lezioni ed un giorno decide di scrivergli.

Caspar David Friedrich | Wanderer above the Sea of Fog, 1818

L’aspirante poeta affida allo scrittore le prime prove poetiche ed i segreti della sua anima, cui il maestro risponde con sincerità, dispensando consigli umili e perle di saggezza.
Rilke terrà una sincera corrispondenza - durata 5 anni (1903-1908) - col giovane poeta, dispensando consigli molto umili, perle di saggezza e di infinita umanità.

Lettera di Rilke a Franz, Parigi, 17 febbraio 1903

Egregio signore, la sua lettera mi è giunta solo alcuni giorni fa. Voglio ringraziarla per la sua grande e cara fiducia. Poco altro posso.
Non posso addentrarmi nella natura dei suoi versi, poiché ogni intenzione critica è troppo lungi da me.

Nulla può toccare tanto poco un’opera d’arte quanto un commento critico: se ne ottengono sempre più o meno felici malintesi

Le cose non si possono tutte afferrare e dire come d’abitudine ci vorrebbero far credere; la maggior parte degli avvenimenti sono indicibili,

si compiono in uno spazio in accesso alla parola, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, esistenze piene di mistero la cui vita, accanto all’effimera nostra, perdura.

Ciò premesso, mi sia solo consentito dirle che i suoi versi, pur non avendo una natura loro propria, hanno però sommessi e velati germi di una personalità.
Con più chiarezza lo avverto nell’ultima poesia, “La mia anima”.

Qui, qualcosa di proprio vuole farsi metodo e parola. E nella bella poesia “A Leopardi” affiora forse una certa affinità con quel grande solitario. Eppure quei poemi sono ancora privi di una loro autonoma fisionomia, anche l’ultimo e quello “A Leopardi”.
La sua gentile lettera che li accompagnava; non manca di spiegarmi varie pecche che ho percepito nel leggere i suoi versi, senza però potervi dare un nome.

Lei domanda se i suoi versi siano buoni. Lo domanda a me. Prima lo ha domandato ad altri, li invia alle riviste, li confronta con altre poesie, e si allarma se certe redazioni rifiutano le sue prove.

Ora, poiché mi ha autorizzato a consigliarla, le chiedo di rinunciare a tutto questo.

Lei guarda all’esterno, ed è appunto questo che ora non dovrebbe fare. Nessuno può darle consiglio o aiuto, nessuno.

Non v’è che un mezzo. Guardi dentro di sé.

Si interroghi sul motivo che le intima di scrivere; verifichi se esso protenda le radici nel punto più profondo del suo cuore; confessi a se stesso: morirebbe, se le fosse negato di scrivere?

Questo soprattutto: si domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere?

Frughi dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta. E se sarà di assenso, se lei potrà affrontare con un forte e semplice «io devo» questa grave domanda, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità.
La sua vita, fin dentro la sua ora più indifferente e misera, deve farsi insegna e testimone di questa urgenza.


Allora si avvicini alla natura. Allora cerchi, come un primo uomo, di dire ciò che vede e vive e ama e perde.
Non scriva poesie d’amore; eviti dapprima quelle forme che sono troppo correnti e comuni: sono le più difficili, poiché serve una forza grande e già matura per dare un proprio contributo dove sono in abbondanza tradizioni buone e in parte ottime.

Perciò rifugga dai motivi più diffusi verso quelli che le offre il suo stesso quotidiano; descriva le sue tristezze ed aspirazioni, i pensieri effimeri e la fede in una bellezza qualunque; descriva tutto questo con intima, sommessa, umile sincerità, e usi, per esprimersi, le cose che le stanno intorno, le immagini dei suoi sogni e gli oggetti del suo ricordo.

Se la sua giornata le sembra povera, non la accusi; accusi se stesso, si dica che non è abbastanza poeta da evocarne le ricchezze; poiché per chi crea non esiste povertà, né vi sono luoghi indifferenti o miseri.

E se anche si trovasse in una prigione; le cui pareti non lasciassero trapelare ai suoi sensi i rumori del mondo, non le rimarrebbe forse la sua infanzia, quella ricchezza squisita, regale, quello scrigno di ricordi? Rivolga lì la sua attenzione.

Cerchi di far emergere le sensazioni sommerse di quell’ampio passato; la sua personalità si rinsalderà, la sua solitudine si farà più ampia e diverrà una casa al crepuscolo, chiusa al lontano rumore degli altri.

E se da questa introversione, da questo immergersi nel proprio mondo sorgono versi, allora non le verrà in mente di chiedere a qualcuno se siano buoni versi.
Né tenterà di interessare le riviste a quei lavori: poiché in essi lei vedrà il suo caro e naturale possesso, una scheggia e un suono della sua vita.

Un’opera d’arte è buona se nasce da necessità

È questa natura della sua origine a giudicarla: altro non v’è.

E dunque, egregio signore, non avevo da darle altro consiglio che questo: guardi dentro di sé, esplori le profondità da cui scaturisce la sua vita; a quella fonte troverà risposta alla domanda se lei debba creare.
La accetti come suona, senza stare a interpretarla. Si vedrà forse che è chiamato a essere artista.
Allora prenda su di sé la sorte, e la sopporti, ne porti il peso e la grandezza, senza mai ambire al premio che può venire dall’esterno.

Poiché chi crea deve essere un mondo per sé e in sé trovare tutto, e nella natura sua compagna.

Forse, però, anche dopo questa discesa nel suo intimo e nella sua solitudine, dovrà rinunciare a diventare un poeta (basta, come dicevo, sentire che senza scrivere si potrebbe vivere, perché non sia concesso).
Ma anche allora, l’introversione che le chiedo non sarà stata vana. La sua vita in ogni caso troverà, da quel momento, proprie vie; e che possano essere buone, ricche e ampie, questo io le auguro più di quanto sappia dire.

Cos’altro dirle? Mi pare tutto equamente rilevato; e poi, in fondo, volevo solo consigliarla di seguire silenzioso e serio il suo sviluppo; non lo può turbare più violentemente che guardando all’esterno, e dall’esterno aspettando risposta a domande cui solo il sentimento suo più intimo, nella sua ora più quieta, può forse rispondere.
Mi ha rallegrato trovare nel suo scritto il nome del professor Horacek; serbo per quell’amabile studioso grande stima, e una gratitudine che non teme gli anni.
Voglia, la prego, dirgli di questo mio sentimento; è molto buono a ricordarsi ancora di me, e lo so apprezzare.

Le restituisco inoltre i versi che gentilmente mi ha voluto confidare.
E la ringrazio ancora per la grandezza e la cordialità della sua fiducia, di cui con questa risposta sincera, e data in buona fede, ho cercato di rendermi un po più degno di quanto io, un estraneo, non sia.

Suo devotissimo,
Rainer Maria Rilke

"Letters to a Young Poet" (original title, in German: Briefe an einen jungen Dichter) is a collection of ten letters written by Bohemian-Austrian poet Rainer Maria Rilke (1875-1926) to Franz Xaver Kappus (1883-1966), a 19-year-old officer cadet at the Theresian Military Academy in Wiener Neustadt.
Rilke, the son of an Austrian army officer, had studied at the academy's lower school at Sankt Pölten in the 1890s.

Kappus corresponded with the popular poet and author from 1902 to 1908 seeking his advice as to the quality of his poetry, and in deciding between a literary career or a career as an officer in the Austro-Hungarian Army. Kappus compiled and published the letters in 1929 - three years after Rilke's death from leukemia.

In the first letter, Rilke respectfully declines to review or criticize Kappus' poetry, advising the younger Kappus that "Nobody can advise you and help you, nobody.
"There is only one way. Go into yourself" Rilke, over the course of the ten letters, proceeds to advise Kappus on how a poet should feel, love, and seek truth in trying to understand and experience the world around him and engage the world of art.
These letters offer insight into the ideas and themes that appear in Rilke's poetry and his working process.
Further, these letters were written during a key period of Rilke's early artistic development after his reputation as a poet began to be established with the publication of parts of Das Stunden-Buch (The Book of Hours) and Das Buch der Bilder (The Book of Images).

Paris, February 17, 1903

Rainer Maria Rilke

Dear Sir,
Your letter arrived just a few days ago. I want to thank you for the great confidence you have placed in me. That is all I can do. I cannot discuss your verses; for any attempt at criticism would be foreign to me. Nothing touches a work of art so little as words of criticism: they always result in more or less fortunate misunderstandings.
Things aren’t all so tangible and sayable as people would usually have us believe; most experiences are unsayable, they happen in a space that no word has ever entered, and more unsay able than all other things are works of art, those mysterious existences, whose life endures beside our own small, transitory life.

With this note as a preface, may I just tell you that your verses have no style of their own, although they do have silent and hidden beginnings of something personal. I feel this most clearly in the last poem, “My Soul”.
There, some thing of your own is trying to become word and melody.

And in the lovely poem “To Leopardi” a kind of kinship with that great, solitary figure does perhaps appear. Nevertheless, the poems are not yet anything in themselves, not yet any thing independent, even the last one and the one to Leopardi. Your kind letter, which accompanied them managed to make clear to me various faults that I felt in reading your verses, though I am not able to name them specifically.

You ask whether your verses are any good. You ask me. You have asked others before this. You send them to magazines. You compare them with other poems, and you are upset when certain editors reject your work. Now (since you have said you want my advice) I beg you to stop doing that sort of thing. You are looking outside, and that is what you should most avoid right now. No one can advise or help you – no one. There is only one thing you should do.
Go into yourself. Find out the reason that commands you to write; see whether it has spread its roots into the very depths of your heart; confess to yourself whether you would have to die if you were forbidden to write.

This most of all: ask yourself in the most silent hour of your night: must I write?
Dig into yourself for a deep answer. And if this answer rings out in assent, if you meet this solemn question with a strong, simple “I must”,

then build your life in accordance with this necessity; your whole life, even into its humblest and most indifferent hour, must become a sign and witness to this impulse. Then come close to Nature.

Then, as if no one had ever tried before, try to say what you see and feel and love and lose. Don’t write love poems; avoid those forms that are too facile and ordinary: they are the hardest to work with, and it takes a great, fully ripened power to create something individual where good, even glorious, traditions exist in abundance.

So rescue yourself from these general themes and write about what your everyday life offers you; describe your sorrows and desires, the thoughts that pass through your mind and your belief in some kind of beauty Describe all these with heartfelt, silent, humble sincerity and, when you express yourself, use the Things around you, the images from your dreams, and the objects that you remember.

If your everyday life seems poor, don’t blame it; blame yourself; admit to yourself that you are not enough of a poet to call forth its riches; because for the creator there is no poverty and no poor, indifferent place. And even if you found yourself in some prison, whose walls let in none of the world’s sound – wouldn’t you still have your childhood, that jewel beyond all price, that treasure house of memories? Turn your attention to it.

Try to raise up the sunken feelings of this enormous past; your personality will grow stronger, your solitude will expand and become a place where you can live in the twilight, where the noise of other people passes by, far in the distance. And if out of , this turning within, out of this immersion in your own world, poems come, then you will not think of asking anyone whether they are good or not. Nor will you try to interest magazines in these works: for you will see them as your dear natural possession, a piece of your life, a voice from it. A work of art is good if it has arisen out of necessity. That is the only way one can judge it.

So, dear Sir, I can’t give you any advice but this: to go into yourself and see how deep the place is from which your life flows; at its source you will find the answer to, the question of whether you must create. Accept that answer, just as it is given to you, without trying to interpret it. Perhaps you will discover that you are called to be an artist.

Then take that destiny upon yourself, and bear it, its burden and its greatness, without ever asking what reward might come from outside.
For the creator must be a world for himself and must find everything in himself and in Nature, to whom his whole life is devoted.

But after this descent into yourself and into your solitude, perhaps you will have to renounce becoming a poet (if, as I have said, one feels one could live without writing, then one shouldn’t write at all). Nevertheless, even then, this self searching that I ask of you will not have been for nothing.
Your life will still find its own paths from there, and that they may be good, rich, and wide is what I wish for you, more than I can say.

What else can I tell you? It seems to me that everything has its proper emphasis; and finally I want to add just one more bit of advice: to keep growing, silently and earnestly, through your whole development; you couldn’t disturb it any more violently than by looking outside and waiting for outside answers to questions that only your innermost feeling, in your quietest hour, can perhaps answer.

It was a pleasure for me to find in your letter the name of Professor Horacek; I have great reverence for that kind, learned man, and a gratitude that has lasted through the years. Will you please tell him how I feel; it is very good of him to still think of me, and I appreciate it.

The poem that you entrusted me with, I am sending back to you. And I thank you once more for your questions and sincere trust, of which, by answering as honestly as I can, I have tried to make myself a little worthier than I, as a stranger, really am.

Yours very truly,
Rainer Maria Rilke