Dopo la mostra organizzata da Petit Monet poté godere del sostegno economico e morale di un pubblico finalmente svincolatosi dalle pastoie della pittura accademica.
La gloria, tuttavia, non offuscò né la sua umiltà né le sue ambizioni pittoriche, finalizzate a rendere «l'immediatezza, l'atmosfera soprattutto e la stessa luce diffusa ovunque».
Volendo indagare in maniera più accurata i problemi della luce e dalle sensazioni di colore, dunque, Monet intraprese le cosiddette serie, nelle quali uno stesso soggetto viene ripreso in decine e decine di tele, in modo tale che l'unico fattore cangiante è proprio la luce: si trattava di un'escogitazione pittorica ottimale per dimostrare come la sola luce riuscisse a generare percezioni visive sempre mutevoli e stimolanti.
Lo stesso Monet racconta: «Dipingevo alcune macine che mi avevano colpito e che costituivano un magnifico gruppo, a due passi da qui. Un giorno mi accorgo che l'illuminazione è cambiata e dico a mia nuora: "Vada a casa a prendermi un'altra tela!"- Me la porta, ma poco dopo è nuovamente diversa: "Un'altra! E un'altra ancora!". Così lavoravo a ciascuna di esse solamente quando avevo l'effetto giusto [...] ecco tutto».
Monet ritrasse le macine ben quindici volte, in stadi climatici e luministici talora radicalmente differenti. Quest'originalissima esperienza pittorica fu rivissuta dal pittore varie volte: innanzitutto con i Pioppi, anche loro rappresentati in ore del giorno e in stagioni differenti.
Dal 1889-1891, invece, incominciò a dipingere la serie dei Covoni, anch'essi scanditi come di consueto nel mutare delle stagioni e delle ore.
Sempre attingendo dall'epistolario comprendiamo con quanta dedizione Monet si cimentava in questi cicli: «Sgobbo molto, mi ostino su una serie di diversi effetti, ma in questo periodo il sole declina così rapidamente che non mi è possibile seguirlo [...] vedo che bisogna lavorare molto per riuscire a rendere quello che cerco: l'istantaneità, soprattutto l'involucro, la stessa luce diffusa ovunque, e più che mai le cose facili, venute di getto, mi disgustano» scrisse il pittore nell'ottobre del 1890 a Gustave Geffroy.
Sempre più indifferente al soggetto, le forme servivano a Monet solo per tradurre pittoricamente il suo interesse per l'irradiazione della luce: interessantissima, in tal senso, la serie delle Cattedrali di Rouen, delle quali si parla nella voce apposita.
Nel 1890 Monet, forte di una certa sicurezza economica, poté finalmente acquistare il suo casolare di Giverny e realizzare il sogno di una vita: quello di dedicarsi al giardinaggio e di realizzare un sontuosissimo parco ornamentale intorno alla sua dimora.
«Il giardinaggio è un'attività che ho imparato nella mia giovinezza quando ero infelice. Forse devo ai fiori l'essere diventato un pittore» ammise una volta, consapevole di come il suo interesse per la pittura di paesaggio fu tutt'altro che fortuita.
Lavorando con tenacia e tenerezza il pittore tinse la propria casa di rosa e di verde e, alle spalle di quest'ultima, diede vita al Clos Normand, un giardino che con mezzi floreali orchestra una vera e propria sinfonia di luce, di arte e di vita.
Camminando per la ragnatela di sentieri di questo hortus conclusus, con tanto di archi metallici impreziositi da rose canine e gelsomini, Monet poteva infatti godere della variopinta benevolenza di una quantità innumerevole di essenze: iris, papaveri orientali, verbene, peonie, rose, campanule, tulipani, narcisi e, infine, quelli che Marcel Proust definì «fiori sbocciati in cielo»: le ninfee.
Sfruttando la tranquilla confluenza del fiume Epte nel territorio di Giverny, infatti, Monet creò nel proprio giardino un piccolo stagno «che delizi gli occhi» e che gli offra buoni «soggetti da dipingere».
Lo specchio d'acqua, sovrastato da un suggestivo ponte color verde brillante di chiara ispirazione giapponese, fu poi popolato di peonie, glicini viola e bianchi, bambù, di cotogni, ciliegi ornamentali, ontani, tamerici, agrifogli, frassini, salici piangenti, cespugli di lamponi, agapanthus, lupini, rododendri, azalee e ciuffi di erba della Pampa.
In questo microcosmo acquatico e vegetale, poi, un posto di primaria importanza spetta alle delicatissime ninfee bianche e rosa che riposano sul laghetto e che catturarono con il loro placido fluttuare l'attenzione di molti, a partire da Marcel Proust, che nel suo Alla ricerca del tempo perduto ne fornì una descrizione molto suggestiva:
«[...] giacché il colore che creava in sottofondo ai fiori era più prezioso, più commovente di quello stesso dei fiori; e sia che facesse scintillare sotto le ninfee, nel pomeriggio, il caleidoscopio di una felicità attenta, mobile e silenziosa, sia che si colmasse verso sera, come certi porti lontani, del rosa sognante del tramonto, cambiando di continuo per rimanere sempre in accordo, intorno alle corolle dalle tinte più stabili, con quel che c'è di più profondo, di più fuggevole, di più misterioso – con quel che c'è d'infinito – nell'ora, sembrava che li avesse fatti fiorire in pieno cielo» | Fonte: © Wikipedia