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Claude Monet | Stile

Claude Monet è stato il sostenitore più convinto ed instancabile del «metodo impressionista» che vide già riassunto in nuce nelle opere dell'amico Manet.
Per comprendere appieno la carica rivoluzionaria della figura di Monet, tuttavia, è necessario calarla con precisione nell'ambiente storico e artistico francese della seconda metà dell'Ottocento.
La Francia della seconda metà del XIX secolo era una nazione viva, moderna, ricca di magnificenze e di contraddizioni, che in seguito all'offensiva prussiana del 1870 aveva conosciuto un impetuoso sviluppo economico e sociale che, tuttavia, aveva inizialmente mancato di investire le arti figurative.



Allo scoccare della seconda metà del secolo, infatti, i pittori francesi continuavano a osservare scrupolosamente le norme tradizionali dell'autorevole art pompier, la quale tendeva inesorabilmente a un esasperato classicismo, non solo nella contenutistica ma anche nella forma.
Artisti come Alexandre Cabanel od William Bouguereau, infatti, continuavano a ripercorrere in maniera acritica i sentieri accademici, dando vita ad immagini uniformi, stereotipate, ripetitive, prive di elementi di interesse: come giustamente osservò Leo Steinberg gli araldi dell'art pompier avevano «la presunzione di creare un’arte vivente con impulsi già da molto morti e mummificati».


Impulsi, vale la pena ricordarlo, che descrivevano le figure e gli oggetti in maniera industriosamente meticolosa, a tal punto da riuscire a mettere a fuoco ogni minimo dettaglio: si otteneva, come risultato, un'immagine talmente levigata da sembrare quasi «laccata».
Monet, tuttavia, non si riconosceva nelle forme fossilizzate dell'arte ufficiale e, in questo momento cruciale dell'arte mondiale, negò il sistema di valori che nutriva le celebrità dei Salon.
La prassi accademica, secondo il giudizio di Monet, rappresentava la realtà sensibile in modo obsoleto, arido: è a partire da questa constatazione, e nel segno di una resa del mondo circostante più autentica e vigorosa, che si innesta la «missione pittorica» di Monet, particolarmente innovativa sia sul piano tecnico sia su quello tematico.


Le premesse che hanno consentito la nascita e lo sviluppo dell'arte monetiana sono dunque da ricercarsi nella rivolta all'accademismo e nella volontà tutta positivista di ripristinare il senso del vero.
La scienza, infatti, nella seconda metà dell'Ottocento stava vivendo una fase di grande splendore, ed era pervenuta grazie all'esame obiettivo dei fatti empirici a scoperte che influirono non poco sulla poetica impressionista adottata da Monet.
Si notò, innanzitutto, che tutte le nostre percezioni visive avvengono grazie alla luce e ai colori, i quali - dopo essere sottoposti opportunamente a una rielaborazione cerebrale - ci fanno intuire la forma dell'oggetto osservato e le sue coordinate spaziali. Forma e spazio, nonostante la loro condizione di subordinazione alla luce e ai colori, erano tuttavia i protagonisti indiscussi dell'arte accademica, che per elaborare immagini analoghe a quelle date dalla visione diretta si serviva di espedienti come la prospettiva e il chiaroscuro.


Questo atteggiamento non era affatto condiviso da Monet, il quale - in virtù del già ricordato primato della luce e dei colori - nei propri dipinti abolì in maniera completa e definitiva la prospettiva geometrica.
Egli, infatti, amava rapportarsi alla natura - l'unica fonte della sua ispirazione - senza precostituite impalcature mentali, abbandonandosi all'istinto della visione che, quando è immediata, ignora il rilievo e il chiaroscuro degli oggetti, che sono invece il risultato dell'applicazione al disegno di scuola.
Da qui la volontà del pittore di liberarsi dalla schiavitù del reticolo prospettico, che «immobilizza» gli spazi in maniera statica e idealizzata, e di cogliere la realtà fenomenica con maggiore spontaneità e freschezza.


Nei quadri monetiani, dunque, la natura si offre in maniera immediata agli occhi dell'osservatore: questa, tuttavia, fu una scelta gravida di conseguenze.
Se, infatti, i nostri organi visivi registrano in maniera oggettiva tutti i dettagli sui quali ci soffermiamo, è pur vero che il nostro intelletto scarta il superfluo e, con un'operazione di sintesi, mantiene solo l'essenziale, in maniera del tutto analoga a «quando, terminata la lettura di un libro, noi ne abbiamo compreso il significato, senza per questo ricordarne dettagliatamente tutte le parole che lo compongono» (Piero Adorno).
A partire da queste premesse Monet approda non a uno stile liscio e attento ai dettagli come quello accademico, bensì a una pittura priva di forma disegnativa, vibrante, quasi evocativa, finalizzata con la sua indefinitezza a cogliere l'impressione pura.
All'affermarsi delle teorie di Monet, non a caso, non era affatto estranea la fotografia, procedimento che produceva immagini impeccabili per la loro precisione: grazie a questa clamorosa invenzione il pittore poté legittimare la non-documentarietà delle proprie opere, le quali erano finalizzate piuttosto a cogliere l'impressione che determinati dati oggettivi suscitavano nella sua soggettività.


Come già detto Monet persegue questa tecnica suggellando il definitivo trionfo pittorico del colore e della luce. Anche questa volta fondamentale è il ricorso alle ricerche scientifiche effettuate in quel periodo nel campo della cromatica.
Era stato infatti osservato che i tre colori a cui sono sensibili i coni dell'occhio umano, ovvero il rosso, il verde e il blu, se combinati in quantità equilibrate danno vita a un fascio luminoso bianco.
Sempre gli studi e gli esperimenti ottici dell'epoca, poi, notarono come il colore non fosse inerente agli oggetti, che al contrario si limitano a riflettere alcune particolari lunghezze d'onda, interpretate dal cervello come colore, per l'appunto: ecco, allora, che una mela rossa assorbe tutte le lunghezze d'onda, tranne quella relativa al colore rosso.


È per questo motivo che, sovrapponendo gradualmente più colori diversi, questi perderanno gradualmente la loro luminosità, fino a degradare nel nero.
Da queste ricerche scientifiche Monet desunse una serie considerevole di peculiarità stilistiche: egli, infatti, evitò sempre di utilizzare i bianchi ed i neri, i quali come si è appena appurato sono una sorta di «non-colori», e arrivò persino a teorizzare l'esistenza delle «ombre colorate», proprio perché le tinte in un dipinto subiscono l'influenza di quelle vicine seguendo concatenamenti continui (i colori che tingono un oggetto esposto al sole, dunque, si imprimono nell'ombra da esso proiettata, che pertanto non sarà mai completamente nera, come d'altronde si è già visto).
Egli, poi, utilizzò sempre colori puri, evitando di contaminarli con i chiaroscuri artificiali (più colori si miscelano e si sovrappongono, si è visto, meno luce riflette il dipinto). È per questo motivo che nei quadri monetiani i colori sono dissolti in una luce intensissima, quasi abbagliante.


Ma quali sono le caratteristiche della luce inseguita da Monet?

Innanzitutto è naturale: Monet, infatti, dipingeva en plein air, non nel chiuso amorfo degli atelier bensì all'aria aperta, immergendosi nella vegetazione di un boschetto o nella folla brulicante di un boulevard parigino e subendone direttamente l'influsso.
Il pittore, d'altronde, non poteva certo ricorrere alla luce artificiale, siccome solo i baleni del Sole riuscivano a offrirgli quella brillantezza che egli intendeva cristallizzare nei propri dipinti.

Particolarmente eloquente, in tal senso, la risposta che Monet diede al giornalista Émile Taboureux quando questi gli chiese di entrare nel suo atelier: «Mon atelier! Mais je n'ai jamais eu d'atelier, moi, et je ne comprends pas qu'on s'enferme dans une chambre» e poi, indicando con un gesto solenne la Senna, il cielo e il villaggio di Vétheuil, «Voilà mon atelier».


La natura, insomma, con la pratica del plein air - saggiata, a onor del vero, già da Constable e dai pittori di Barbizon, ma finalmente impiegata in tutte le sue potenzialità - venne assunta da Monet come punto di partenza per decodificare la realtà: se ciò, dopo la rivoluzione impressionista, potrebbe sembrare quasi banale, all'epoca era assolutamente innovativo, siccome Monet fu tra i primi ad approfondire le potenzialità intrinsecamente connesse con l'atto della visione (e non è un caso se Cézanne, pieno di deferenza verso il maestro, una volta esclamò: «Claude Monet non è un occhio, ma [...] che occhio!»).
La pratica del plein air, poi, obbligava Monet a una rapidità d'esecuzione particolarmente spiccata: ciò, tuttavia, era perfettamente compatibile con il suo credo pittorico, finalizzato come si è già accennato a cogliere le impressioni fuggevolissime e irripetibili.


Monet, infatti, concepisce la realtà come un flusso perenne dove tutto si anima in «un incessante e fantastico divenire» senza pietrificarsi in «uno stato definitivo e acquisito» (Cricco, di Teodoro): il compito del pittore, dunque, sarà quello di cogliere con il suo pennello l'attimo fuggente, quel momento transeunte che passa e non torna più.
Da qui nasce l'ammirazione di Monet per quei soggetti perennemente in movimento, come gli specchi d'acqua, che a seconda delle condizioni del colore, della luce, dei riflessi sovrastanti e della disposizione delle increspature forniscono stimoli pittorici inesauribili.
Soggetti, dunque, in opposizione a ciò che è stabile, a ciò che dura: le pennellate di Monet, pertanto, non saranno fluide e ben definite come quelle accademiche, bensì saranno veloci e sintetiche. | Fonte: © Wikipedia