Carlo Carrà (1881-1966) was a leading figure of the Futurist movement that flourished in Italy during the beginning of the 20th century. In addition to his many paintings, he wrote a number of books concerning art. He taught for many years in the city of Milan.
Carrà was born in Quargnento, near Alessandria, Piedmont. At the age of 12 he left home in order to work as a mural decorator.
In 1899-1900, Carrà was in Paris decorating pavilions at the Exposition Universelle, where he became acquainted with contemporary French art. He then spent a few months in London in contact with exiled Italian anarchists and returned to Milan in 1901.
In 1906, he enrolled at Brera Academy in the city, and studied under Cesare Tallone. In 1910 he signed, along with Umberto Boccioni, Luigi Russolo and Filippo Tommaso Marinetti the Manifesto of Futurist Painters, and began a phase of painting that became his most popular and influential.
Carrà's Futurist phase ended around the time World War I began. His work, while still using some Futurist concepts, began to deal more clearly with form and stillness, rather than motion and feeling.
Carrà soon began creating still lifes in a style he, along with Giorgio de Chirico, called "Metaphysical painting".
Throughout the 1920s and 1930s, the metaphysical phase gave way to a sombre style akin to Masaccio's. An example from this period is his 1928 Morning by the Sea.
Carlo Carrà is best known for his 1911 futurist work, The Funeral of the Anarchist Galli. Carrà was indeed an anarchist as a young man but, along with many other Futurists, later held more reactionary political views, becoming ultra-nationalist and irredentist before and during the war, as well as by Fascism after 1918 (in the 1930s, Carrà signed a manifesto in which called for support of the state ideology through art).
The Strapaese group he joined, founded by Giorgio Morandi, was strongly influenced by fascism and responded to the Neo-classical guidelines which had been set by the regime after 1937 (but was opposed to the ideological drive towards strong centralism).
CARRÀ Carlo - Figlio di Giuseppe e Giuseppina Pittolo, nacque a Quargnento (Alessandria) l'11 febbraio del 1881. Nel 1899-1900 il Carrà fu per la prima volta a Parigi, poi a Londra; ma i corsi regolari li seguì all'Accademia di Brera, alla scuola di Cesare Tallone.
Vide molta pittura antica e moderna a Londra e a Parigi; a Milano guardava soltanto a Segantini, Previati, Mosé Bianchi. Per quel tempo, la sua era una "informazione" abbastanza vasta, tale da fargli capire, per via di confronto, che l'arte borghese italiana del primo Novecento non poteva suggerirgli alcuna idea innovatrice.
La presenza eversiva di Marinetti, cosmopolita, insofferente del cumulo delle tradizioni scolastiche e del bozzettismo ottocentesco, di una letteratura provinciale e, nei casi peggiori, accademica, soggiogò immediatamente lo spirito anarchico del ribelle Carrà.
La partecipazione del Carrà al futurismo (fu uno dei redattori del Manifesto) ben si spiega tenendo conto, di una prima confusa esperienza di letture anarcoidi e libertarie, che aveva preparato il terreno alla ribellione contro la borghesia e contro la filosofia crociana. Si manifestavano allora in lui i sedimenti di una letteratura decadente, in cui marxismo e idealismo apparivano in fiera lotta.
Il Carrà aveva un temperamento rude che non si temperò nemmeno con l'incontro con Boccioni, agile dialettico e vivacissima intelligenza del composito gruppo futurista. Accanto a Marinetti, incominciò per il Carrà una intensa stagione creatrice, cui aveva dato qualche spunto attivo l'esperienza divisionista. Dal 1909 al 1915, l'attività futurista fu intensa, per il Carrà, in Italia e all'estero.
Nella Galleria di Milano, la conoscenza di Braque e di Picasso servì a trasformare il linguaggio futurista, ancora grezzo e incerto, in un sistema pittorico coerente con la scomposizione dei piani e non con le linee di forza.
Accanto alla Galleria di Milano, Donna al balcone (Simultaneità: Milano, coll. R. Jucker) è l'opera più ricca di indicazioni per definire una ricerca iniziata in sede milanese, sotto gli auspici lombardi di Cesare Tallone, continuata all'insegna del divisionismo di Segantini e di Previati, e risolta con quel punto d'arrivo, nel 1912, che veniva a negar tutto, nel nome di Cézanne e del cubismo.
Nei suoi viaggi a Parigi e a Londra il Carrà aveva saputo vedere, aveva saputo riconoscere quale fosse il vero indirizzo dell'arte moderna.
Nella compenetrazione della figura, con l'ambiente, attraverso la ricostruzione strutturale delle forme ispirata dalla pittura cubista, il Carrà aveva creato quella sintesi di elementi linguistici cubisti e di intuizioni futuriste che Boccioni, in sede teorica, aveva più volte negato.
Il Carrà vedeva col suo occhio romanico la "simultaneità", costruendo una immagine, d'un rilievo scultoreo, per masse contrapposte che, nella Donna al balcone, facevano blocco in una soluzione plastica nuova, certamente più plausibile dei collages e delle composizioni del '14 e del '15, più fedeli ai principi della estetica futurista.
Ma quella volontà costruttiva era la componente fondamentale dell'arte del Carrà; era la base sulla quale, consumata l'esperienza dell'attivismo futurista, il pittore avrebbe creato gli spazi poetici della nuova avventura "metafisica".
Nel 1915 la campagna interventista ebbe il Carrà tra i più fieri sostenitori, ma ormai il pittore si era allontanato dal futurismo. Si avvicinò in quel periodo al gruppo fiorentino della Voce (diretta allora da G. De Robertis), alla quale collaborò con alcuni scritti significativi (Parlata su Giotto, 31 marzo 1916; Paolo Uccello costruttore, 30 sett. 1916).
Il 1916 ed il 1917 furono gli anni della "seconda rivelazione" per il Carrà: quella appunto dell'arte metafisica, durante il soggiorno a Ferrara - dove venne ricoverato nell'ospedale militare dopo poco che era stato chiamato alle armi -, accanto a G. De Chirico.
Nel 1916 dipinse Il gentiluomo ubriaco (1916: Milano, coll. A. Frua). Vennero poi, nel 1917, La camera incantata (Milano, coll. E. Jesi), La musa metafisica, Madre e figlio, Il cavaliere occidentale (Milano, coll. G. Mattioli), Solitudine (Zurigo, coll. Giedion), ai quali si aggiunsero, nel 1918, l'Ovale delle apparizioni (Milano, coll. R. lucker) e, nel 1921, L'amante dell'ingegnere (Milano, coll. Mattioli) e Il pino sul mare (Roma, coll. A. Casella).
Il Carrà, riallacciandosi a Ferrara all'arte italiana del Quattrocento, scopriva un rapporto certamente più persuasivo di quello tentato con Il fanciullo prodigio (1915: Torino, coll. privata), in un ritorno all'arte dei primitivi, sia pure partendo da Giotto.
La pittura "metafisica" era più congeniale al Carrà delle battaglie futuriste, ironizzate dal Longhi, non troppo tenero, d'altronde, nemmeno con le surreali fantasie dechirichiane: "Il quattrocento diveniva il palcoscenico per l'opera delli pupi metafisici, per i convitati di pietra" scriveva, alludendo al teatrino prospettico e ai manichini (Carrà Carrà, Milano 1937).
A Ferrara, il Carrà poté rinnovare la propria visione, trasformando i suggerimenti delle architetture antiche e di una scuola pittorica, in cui emergevano Cosmè Tura, Ercole De Roberti e Francesco del Cossa, nella realtà di una intuizione poetica attuale, densa di significati enigmatici, allusiva e spesso bizzarra.
Erano possibili gli equivoci "letterari" nelle storie mitologiche dei manichini e nelle stesse composizioni di oggetti, disparati e discordi; ma il nucleo del motivo fantastico si sviluppava quasi sempre sullo schema architettonico dei piani geometrici associati come in una ideale pittura preastratta.
è indubbio che De Chirico, pur "cresciuto in una tradizione per nulla italiana" (Longhi), abbia offerto alla severa meditazione del Carrà l'idea di uno spazio arcano, in cui si fissano "apparizioni" senza tempo, ma oggetti e figure sono inseriti, come valori strettamente pittorici, in un contesto unitario e autonomo.
E' per il Carrà un momento di assoluta libertà fantastica, al di fuori di ogni richiamo o ritorno all'ordine. I manichini erano fantasmi reali, visti da lui a Ferrara, appoggiati a un muro e illuminati da un raggio di luna, e gli oggetti acquistavano la magia segreta dei rapporti spaziali e delle illuminazioni silenti (Natura morta con la squadra [1917: Milano, coll. Jucker]; Natura morta metafisica col busto in gesso [1919: Milano, coll. Jesi]).
C'è nell'arte del Carrà una lenta evoluzione, dalla quale nascono i nuovi motivi, sui primi ricordi giotteschi, di Il pino solitario e di Il pino sul mare (1921). "Con questo dipinto - scrisse in La mia vita - io cercavo di creare, per quanto le mie capacità lo consentissero, una rappresentazione mitica della natura". Si avvertiva già l'inizio di quell'"ordine nuovo", che egli andava maturando con studi appassionati sulla "realtà naturale" dal 1918 in poi, nel superamento dei motivi più propriamente dechirichiani, evidenti in Madre e figlio, La musa metafisica, e L'ovale delle apparizioni.
Nel 1919, tornato a Milano, si sposò con Ines Minoja dalla quale ebbe, nel 1922, l'unico figlio, Massimo. Nel 1918 aveva iniziato la collaborazione alla rivista Valori plastici diretta da M. Broglio; e dal 1922-1938, fu critico d'arte del quotidiano L'Ambrosiano. Dal 1939-1952 fu professore all'Accademia di Brera.
Soggiornò nell'estate del 1921 a Moneglia, e nel 1923 a Camogli: si avviava così alla riscoperta della natura, "a contatto col mare, con le rupi solitarie e i vasti cieli della Liguria" (Longhi). E tale "riscoperta" assume l'aspetto, nel 1923, delle Vele nel porto (Firenze, coll. Longhi), una delle opere più concluse, nella semplicità costruttiva di uno schema giottesco elementare; in netta antitesi con l'impressione, con la rapida nota dal vero.
Sulla via iniziata con la Natura morta con la squadra attraverso un processo di eliminazione del particolare descrittivo, il Carrà riusciva ad esprimere il senso del mistero, che investe ogni aspetto e ogni gesto del vivere quotidiano, nella messa in scena trecentesca di L'attesa (1926: Roma, coll. A. Casella), che ha la sospensione attonita e l'incanto dell'attimo, in cui qualcosa "deve accadere".
Roberto Longhi, che del Carrà è stato il critico e lo storico più attendibile, dice che L'attesa è "l'aspro tentativo d'ingranare le solitudini astratte della metafisica e la nuova cubatura paesistica in un soggetto intinto in quella poetica paesana forse messagli nell'orecchio da certi antichi toscani".
E la nuova idea del paesaggio si precisa, dopo altre prove, rinforzata da elementi cezanniani nel Meriggio (1927: Milano, coll. nel Cancello (Pilastri rossi, 1930: Roma, Gall. naz. d'arte mod.).
Ma il cezannismo riguarda, ancora una volta, le strutture formali, mentre si fa luce, nelle composizioni ispirate dalle marine della Versilia (dal 1926, per diversi anni, l'artista passò l'estate a Forte dei Marmi), il ricordo delle pittura di Seurat, il quale interpreta modernamente le architetture quattrocentesche di Piero, velandole appena sotto lo sfarfallio luminoso del puntinismo scientifico.
Il Carrà le pietrifica, le rende solide e compatte, trasferendo nelle severe marine tirreniche il sentimento dello spazio che animava le pagine fluviali di Une baignade e della Grande Jatte.Questo riferimento a Seurat è evidente soprattutto in I nuotatori (1932: Milano, coll. A. Giovanardi) e nel Barcaiolo (1930: Milano, coll. Pecorini-Zambler) e, con qualche ritorno metafisico, nel Mattino al mare (1928: Milano, coll. Mattioli) e nel Paesaggio marino (1932: Milano, coll. Jesi).
Tuttavia il Carrà più maturo, all'apice di una esperienza artistica troppo brevemente tracciata, il Carrà più vicino alla propria natura è già in nuce nel Cinquale (1926: Roma, coll. Giardini Caponeri) e nella Foce del Cinquale (1928: Milano, Civica Gall. d'arte mod.), dove l'orizzonte si allarga in un nuova prospettiva romantica, nello spazio più proprio alla contemplazione del solitario.
La Versilia è il luogo poetico in cui il Carrà inquadra le spiagge deserte coi capanni allineati, le marine agitate al soffio del libeccio, i moli con le barche e i velieri sotto un cielo minaccioso, i bagnanti come statue che sorgono dall'acqua, le case rustiche tra gli alberi.
Alla Versilia rimase fedele, pur tra le parentesi dei viaggi, dei ritorni a Venezia, dei riposi in Valsesia, perché gli ricordava le origini, le ispirazioni degli antichi, in una solitudine non offesa dalle folle fragorose dei turisti di oggi. Vi aveva trovato la sua vena romantica, ma, come egli stesso scrisse nella sua autobiografia (La mia vita, 2 ediz., Milano 1945), la sua preoccupazione maggiore era questa: "Per me… non si può parlare di espressione di sentimenti pittorici senza tener calcolo soprattutto di questi elementi architettonici che subordinano a sé tutti i valori figurativi di forma e colore".
Così dai Capanni sul mare (1937: Milano, coll. Jesi) il Carrà poté allargare la propria visione a Chiaravalle (1938: Firenze, collez. R. Longhi), alla Prostituta (1945: Milano, coll. Carrà), a Venezia (1946: Milano, coll. Carrà Tosi), alla Uvacon melograni (1951:Milano, coll. Carrà), a Marina a Camogli (1957: Milano, coll. A. Spagnolo), a Casa di Merate (1959: coll. Carrà), e a tante altre riprese di vecchi motivi, negli ultimi anni, Il Carrà conosceva le leggi che regolano la divisione armonica dei piani e degli spazi, e a quelle si affidava nella costruzione di un ordinato mondo fantastico. In ogni opera si sforzava di raggiungere la dimensione umana e morale degli antichi, che gli somigliavano: i creatori di santi, di angeli e di mostri delle cattedrali romaniche. Perché il Carrà era davvero il più antico e il più italiano dei pittori del Novecento.
Morì a Milano il 13 apr. 1966. | Giuseppe Marchiori © Treccani, Dizionario Biografico degli Italiani