Il Gruppo del Laocoonte, scultura barocca ellenistica della scuola di Rodi (I secolo), è una scultura
monumentale di marmo realizzata nel 200 a.C. circa e si trova a Roma,
presso i Musei Vaticani, nel Museo Pio-Clementino. Raffigura il famoso
episodio narrato nell'Eneide che vede il troiano Laocoonte ed i suoi
figli che lottano coi serpenti marini.
Laocoonte, personaggio della mitologia greca, era figlio di Antenore, un abitante
di Troia. Era un veggente e gran sacerdote di Apollo.
Si narra che, quando i troiani portarono nella città il celebre cavallo di Troia, egli corse verso di esso scagliandogli contro una lancia che ne fece risonare il ventre vuoto, proferendo la celebre frase: "Timeo Danaos et dona ferentes" - "Temo i Greci, anche quando portano doni".
Laocoonte cercò invano di convincere i suoi concittadini a non far entrare nella città di Troia il cavallo lasciato dai greci che avevano sciolto l’assedio alla città. Atena, la divinità contraria ai troiani, per evitare che il suo consiglio trovasse ascolto, punì Laocoonte mandando Porcete e Caribea, due enormi serpenti marini che uscendo dal mare avvinghiarono i suoi due figli, egli accorse in loro aiuto e fu stritolato assieme ad essi. Secondo un'altra versione i due serpenti furono inviati da Poseidone, che punì il suo sacerdote per essesi sposato contro la volontà divina. I Troiani presero questo come un segno, tenendo così il cavallo tra le loro mura.
La statua fu trovata il 14 gennaio del 1506 scavando in una vigna sul colle Oppio di proprietà di Felice de Fredis, nelle vicinanze della Domus Aurea di Nerone. Allo scavo, di grandezza stupefacente secondo le cronache dell'epoca, assisterono di persona, tra gli altri, lo scultore Michelangelo e l'architetto Giuliano da Sangallo inviato dal papa a valutare il ritrovamento, secondo la testimonianza di Francesco, giovane figlio di Giuliano, che, ormai anziano, ricorda l'episodio in una lettera del 1567. Secondo questa testimonianza fu proprio Giuliano da Sangallo ad identificare i frammenti ancora parzialmente sepolti con la scultura citata da Plinio. Esistono comunque testimonianze coeve che danno la stessa identificazione della scultura appena rinvenuta. Plinio racconta di averla vista nella casa dell'imperatore Tito, attribuendola a tre scultori provenienti da Rodi: Agesandro, Atanodoro e Polidoro. Infatti, sin dalla sua scoperta l’opera fu ritenuta un originale creato dagli scultori Haghesandros di Rodi ed i suoi due figli, Athenadoros e Polydoros, attribuzione possibile grazie al passo delle Naturalis Historia di Plinio (XX- XVI, 37). Ma, solo recentemente, si sono scoperte notizie su questi tre artisti di Rodida. Si è saputo che erano famosi e abili copisti che eseguivano ricercatissime copie per i commitenti romani del tardo I seolo a.C. Il ritrovamento ebbe enorme risonanza fra gli artisti del tempo ed influenzò significativamente l’arte rinascimentale: Michelangelo, ad esempio, lo prese ad esempio per i suoi Schiavo ribelle e Schiavo morente.